Lo smaltimento dei rifiuti della società fallita grava sul fallimento

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3 pubblicata il 26 gennaio 2021, ritorna sulla vexata quaestio dell'onere di smaltimento dei rifiuti presenti in aree di proprietà di una società dichiarata fallita.

Argomento
Sentenze
Data pubblicazione
1/02/2021

Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare: questo è il principio di diritto enunciato dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3, pubblicata il 26 gennaio 2021. 

Il caso era sorto a seguito di un'ordinanza del Comune di Vicenza di sgombero di un sito inquinato da oltre 65 tonnellate di rifiuti speciali che stazionano da anni sulla riva sinistra del fiume Astichello in quello che era il sito di una ditta che si occupava di pavimentazioni e asfaltature, dichiarata fallita.

A seguito della sentenza di annullamento del provvedimento da parte del TAR per il Veneto, il Comune si era appellato al Consiglio di Stato la cui Quarta Sezione aveva chiesto all'Adunanza Plenaria di chiarire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano o meno giuridica rilevanza "gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 (con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di questa), pur se il curatore fallimentare – in un’ottica di continuità - ‘gestisce’ proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la disponibilità materiale".

L’Adunanza ha in primo luogo escluso, non dando vita il fallimento ad un fenomeno successorio sul piano giuridico, che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti e quindi come soggetto responsabile, salve le ipotesi in cui la produzione dei rifiuti sia in qualche modo ascrivibile specificamente all’operato del curatore.

Ma, per contro, ha affermato che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, a seguito dell’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.F., comportano la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione. La responsabilità alla rimozione è invero connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti ma del bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono.

Il principio è dettato anche alla luce del disposto dell'art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE che definisce il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti e pertanto, nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi anche dopo la cessazione dell'attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito o, in alternativa, da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento: il curatore fallimentare che, non proseguendo l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata.

Di seguito il testo della sentenza dell'Adunanza Plenaria.